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I faggi signori del gelo
Sono i veri signori del bosco di latifoglie montano e questo è il momento dell’anno che meglio degli altri ci permette di soppesare la differenza con le altre piante forestali. Adesso risalta la potenza dei loro tronchi colonnari che possono superare i trenta metri di altezza e rivelano, quando spogli, una struttura semplice, quasi lineare, essenziale, fatta per sfidare e vincere il vento gelido dell’inverno. Potenza non disgiunta da equilibrio e armonia perché il fusto leggermente più largo al piede, posto su radici spesso superficiali robuste, si rastrema dolcemente nell’ultima parte. Le piante di grandi dimensioni si trovano sui versanti meglio esposti al sole perché pur resistendo se posto a nord, nelle gole, nelle zone più fredde, cresce con lentezza.
I larici laddove nessuno osa
È nel rigore dell’inverno, quando agli altri per lo più tocca subire, che il larice dà il meglio di sé e diviene, seppur spoglio, il solo capace di spiccare con grande forza sulla coltre nevosa. Risaltano nel bianco il colore grigio del tronco e dei rami più vecchi, il marrone chiaro e lucente della vegetazione nuova e i ricami dei licheni che non mancano mai. Nei larici vecchi la corteccia diviene molto spessa e si fessura dividendosi in placche che lasciano intravedere una preziosa colorazione rossastra. La forma della chioma, sempre rada e leggera, è piramidale e solo nei soggetti vecchi tende ad aprirsi formando piccoli palchi isolati. In alta montagna la forma della chioma è quanto mai varia perché plasmata dalle condizioni climatiche (come la presenza di venti dominanti o l’essere cresciuti su versanti lungo i quali si scaricano con maggiore frequenza abbondanti precipitazioni nevose), dalla vicinanza con altri soggetti (spesso i larici crescono a piccoli gruppi), e dalle rotture asse principale con la formazione di nuovi apici vegetativi. I rami principali, quelli che si originano dal tronco, sono portati orizzontalmente con l’apice terminale rivolto verso l’alto, mentre i rami secondari sono elastici, sottili e decombenti, quasi penduli.
Le querce che non perdono le foglie
L’alta montagna è troppo fredda per le querce e i pochi esemplari che troviamo sopra i mille metri crescono solo nei versanti assolati e con una lentezza esasperante. Nella fascia collinare invece prosperano e, anche se sono spoglianti, in realtà per tutto l’inverno mantengono ancora tante foglie ed è solo a primavera quando la nuova vegetazione inizia a formarsi che se ne liberano. La foglie secche però sono impermeabili all’acqua così che non si infradiciano e non si appesantiscono causando la rottura dei rami. Il corto picciolo gli consente di vibrare nel vento liberandosi delle neve raccolta, il gelo le incornicia di un sottile ricamo. Il terreno ai piedi degli esemplari più grandi è spesso smosso e coperto di impronte: sono i cinghiali, i caprioli, i daini e i cervi venuti a cercare le ghiande nascoste dal manto nevoso.
Le bacche di rosa canina
In questa stagione il bosco sembra essere del tutto inospitale, senza nulla di cui nutrirsi. Unica eccezione le bacche di rosa canina che esposte alla ripetuta azione del gelo hanno perso la loro consistenza elastica e soda diventando morbide e soffici. La bacca da lucida e piena, diviene opaca, un poco raggrinzita e molle, forse non più così desiderabile, ma assai più ghiotta da gustare. La polpa raggiunge una consistenza cremosa, quasi già fosse stata ridotta in composta, e basta spiccare una bacca e schiacciarla leggermente per trarne, dal punto di rottura, una delizia già pronta per essere consumata. Ma attenzione: solo la parte esterna della bacca, la polpa, che si origina dall’ingrossamento del ricettacolo, è dolce e commestibile. Nel centro si trovano i veri frutti, piccoli acheni di colore chiaro, ovali e compressi, scambiati per i semi, immersi in un filamentoso insieme di setole vegetali che è bene non ingerire perché capaci di causare problemi.
I fiori
La piccola farfara gialla, Tussilago farfara, meglio nota come Tussilagine comune, è la margherita del disgelo perché compare laddove la neve si ritira, sui ghiaioni o al bordo strada, sempre ben esposta al sole. Fiorisce per una breve stagione e per il resto dell’anno, dopo che è salita a seme, liberando leggeri piumini biancastri, se ne perdono le tracce.
All’ombra, nei boschi e nei fossi, ma anche al sole, sugli argini delle strade e nei terreni franosi e calcarei, compaiono gli ellebori, Helleborus foetidus. Sono tra i primi a fiorire, molto prima dell’arrivo della primavera, anzi già in autunno si preparano e sembra proprio non farcela ad aspettare il ritorno della bella stagione per aprire le sue corolle. La neve li avvolge e li ricopre per rivelarli intatti quando si scioglierà. A partire da gennaio fino ad aprile, producono lo stelo fiorifero ramificato con molti fiori ad apertura scalare, durevoli, specie se non esposti al sole diretto, di colore verde acido con una bordatura rossa sui petali, non sempre presente nelle forme selvatiche.
Il farfaraccio maggiore, conosciuto anche come tussilaggine maggiore o slavazza, Petasites hybridus, un tempo Petasites officinalis, fiorisce già a partire da gennaio formando racemi con capolini che portano all’esterno fiori ligulati circondati da brattee di aspetto fogliaceo. Fecondati dalle api si trasformeranno in frutti pelosi che saranno diffusi dal vento.