Lina Bo, diventata Bardi a seguito del matrimonio con Pietro Maria, critico d’arte e giornalista, romana di nascita (nel 1914, come Achillina), città a cui deve la formazione e la laurea in architettura, ma ben presto trasferita a Milano dove lavora con Gio Ponti, il 22 maggio viene insignita del Leone d’Oro speciale alla memoria. La 17a Mostra Internazionale di Architettura di Venezia renderà infatti omaggio a una delle poche progettiste italiane che hanno segnato la storia dell’architettura del nostro Paese. Pur vivendo per la quasi totalità della sua vita in Brasile, la sua “patria di scelta”, come la definì.
Grande disegnatrice a colori, ha indirizzato la sua forza creativa in ambiti applicativi molto diversi, attraversando senza alcuna sbavatura il design, la scenografia, l’arredamento, l’arte, le arti applicate, oltre ovviamente l’architettura. E solo un paese multiforme e sfaccettato come quello sudamericano dei decenni del secondo dopoguerra poteva assecondare questa avventura: “ciò che ho fatto in Brasile non lo avrei mai potuto costruire in Europa”, diceva infatti lei stessa.
Attratta dal fascino della materia grezza e dal suo accostamento pur improbabile con la natura – colonne di calcestruzzo rivestite da intrecci di foglie di palma, solai di lastre cementizie prefabbricate coperte di piante tropicali in grado di assorbire l’umidità, “fango-cemento” per i tamponamenti… – è l’autrice della fascinosa Casa de Vidro, diventata poi sua residenza, del Museo d’Arte di San Paolo, del centro sociale SESC sempre a San Paolo. La prima, quasi inglobata nel “mare di verde” della natura lussureggiante brasiliana, rispecchia l’idea della domesticità di Lina Bo Bardi, ovvero una casa come “entità spirituale e morale, senza avere un aspetto scenografico-teatrale”. Un edificio dallo schema molto semplice, con elementi prefabbricati, standardizzati, modulari, quasi fossero parti di un vero e proprio kit di costruzione, da utilizzare secondo modalità molto vicine a quelle della pratica del disegno industriale. Infatti i suoi arredi di acciaio tubolare e cuoio o tessuto (come la Bowl Chair oggi prodotta da Arper) vengono pensati come architetture ridotte, in cui sono rilevanti elementi tipici dell’edilizia, come i nodi, i giunti, la struttura portante. Il tutto in un’ottica di quello che sarà poi ai giorni nostri il cosiddetto design democratico: “standardizzare significa ampliare le possibilità, fare in modo che qualcosa concepito per pochi sia accessibile a molti. Significa migliorare, perché è molto più facile studiare a fondo un organismo elementare, di quanto sia studiarne una serie infinita e indefinita”.